Illuminismo, sensismo, preromanticismo nel «Caffè»

Nell’attenta distinzione che è indispensabile quando si esamina un periodo culturale cosí complesso e apparentemente contraddittorio come quello del secondo Settecento, e che sull’esempio del Cassirer dovrebbe sempre guidare ogni storico dell’illuminismo (che nel suo seno ha sostanzialmente due linee di tensione giunte ad equilibrio nel momento piú tipicamente «illuministico», ma certamente spostate e alla fine in contrasto: quella razionalistica e quella sensistica che evolve in amore del concreto, in preminenza della sensazione interna, del sentimento e quindi a suo modo prelude a svolgimenti romantici), rientra di diritto il gruppo di scritti e di scrittori raccolti nel «Caffè», piú efficaci quanto a storia di cultura letteraria di qualche isolato «precursore» romantico rimasto fuori dello scambio vivo del suo tempo. Perché ai fini della nostra storia di poetica occorre insistere sulla importanza essenziale non solo di testi poetici o di nuovi concetti estetici separati, ma proprio del tono sentimentale, dell’atteggiamento latamente umano di scritti che influirono e che portarono consciamente o inconsciamente consigli, direttive di gusto, posizioni di sensibilità inevitabilmente traducibili in princípi di poetica, in inclinazioni di lingua poetica. Allora ben si comprende l’importanza di una rivista come il «Caffè» che comunemente è stata valutata o ai fini di motivi prerisorgimentali o come aspetto di rinnovamento civile settecentesco: tesi parzialmente giuste, ma integrabili con una considerazione diversa di storia della cultura e particolarmente di storia della cultura letteraria.

Il «Caffè» (collocato proprio nel momento cruciale del secondo Settecento, 1764-65, contemporaneo alla «Frusta», tra l’uscita del Mattino e del Mezzogiorno, subito dopo la prima pubblicazione dell’Ossian cesarottiano) è pur certamente il luogo d’incontro piú caratteristico dell’illuminismo italiano, il rappresentante piú serio di una tendenza civile attiva che si spinge fino al «Conciliatore» e innerva in pieno clima ottocentesco il movimento romantico ufficiale 1816, quando il Berchet e il Borsieri renderanno l’omaggio del foglio azzurro ai suoi precursori[1]: omaggio di piena importanza per l’individuazione reciproca dei due movimenti legati dalla costante del «buon senso», e distinti nei loro massimi rappresentanti da una accentuazione razionalistica e spiritualistica storicistica del resto assai moderata, che stimolò il Manzoni al celebre giudizio sul proprio avo e i suoi compagni: «ebbero tutte le illusioni di giovane; buona fede, smisurata convinzione nel trionfo di tutto ciò che a loro pareva verità. E verità pareva loro ciò che contraddiceva a quel che avevano imparato alla scuola»[2].

Rappresenta già in tal senso (il piú noto) il passaggio in Italia da illuminismo a romanticismo in quella linea civile che raccoglie in pieno Settecento le affermazioni di «cittadino» del Parini, le brusche sfuriate del Baretti, i blandi attacchi favolistici del Gozzi e che nel «Caffè» trova la piú vigorosa precisazione in progetti pratici e nella generale rivolta antiarcadica, antipuristica, antipedante. «Cose, non parole»: e sotto questa insegna, con un atteggiamento piú attivo ma meno nuovo di quello barettiano, si cela anche un insieme di esigenze nuove sia illuministiche sia preromantiche sulla strada di un sensismo che si va facendo attenzione al «senso interno», affinamento e pratica di sensibilità, predominio di sentimento.

Alla metà del secolo in Italia si assiste ad un rapido e contemporaneo sviluppo di motivi illuministici forti della loro maturità e di motivi preromantici forti della loro novità, in un nesso piú raccorciato che in altre civiltà settecentesche che si svolgono con maggior lentezza, gradualmente, distesamente, con nascite e passaggi piú differenziati pur trovandovisi un Lessing, un Diderot bifronti e complessi. Questo raccorciamento di uno sviluppo, condizionato naturalmente dalla precedente storia italiana, dal provincialismo secentesco, implica uno sfasamento culturale poco valutato nello studio di questo periodo e che continuerà entro il romanticismo quando residui illuministici seguitano a bruciare con notevole resistenza nelle nuove sintesi: cosí nel Leopardi di cui si possono ben constatare la ripresa e la condotta romantica di affermazioni illuministiche tipiche del «Caffè» e dei suoi scrittori.

Il «Caffè» è documento di questa situazione della cultura italiana, della ricchezza e complessità dell’illuminismo italiano nel cui seno si muovono, soprattutto per merito del prevalente sensismo accanto a sviluppi chiaramente razionalistici, motivi nuovi, spunti di sensibilità nuova e perfino, spesso confusi col nuovo, detriti del passato, remore di conservazione e di reazione antilluministica. E ci serve cosí ad individuare le offerte estreme di una cultura rigogliosa, nel loro sfarsi e passare, e i germi nuovi non ancora liberati e condizionati da una cultura non adeguata: ché spesso in questa storia vedremo nuove intuizioni non appoggiate da una sensibilità nuova, nuovi atteggiamenti di sensibilità rinchiusi in una cultura disadatta.

Il quadro in cui si muove il «Caffè» è decisamente illuministico, privo di ogni residuo erudito e arcadico. Il che lo distacca in maniera rivoluzionaria dalle riviste letterarie immediatamente precedenti e contemporanee: tutte le varie «Novelle letterarie», «Giornale dei letterati», «Estratti della letteratura europea» che sotto titoli grandiosi celano la cultura erudita della numismatica, dell’archeologia[3] ecc. e il letterato che ne esce non è un negatore praticistico di una attività estetica disinteressata, ma conserva anzi alla letteratura la sua universalità riconoscendola in ogni forma di sapere, di conoscenza, di investigazione del reale, arricchendola di precise volontà programmatiche, di intenti civili immediati, dandole il compito di migliorare la vita, di togliere ogni velo, ogni intralcio ad un progresso ancora entusiastico e non corretto neppure dalla prudenza della goethiana ascensione a spirale. Un illuminismo desideroso di esperienza, piú sperimentale che geometrico, ma pur guidato chiaramente da una prima fede nel potere illuminante della ragione, in un cartesiano rifiuto della erudizione mnemonica e nell’insistenza sulle idee «chiare e precise», «chiare e distinte», sulla preminenza del raziocinio. «La sapienza non consiste piú nella sola memoria né piú dirassi scire est reminisci; ma bensí scire est ratiocinari», nella baldanzosa rottura con ogni tradizione – tanto da caldeggiare perfino un modo di vestire libero da ogni moda precedente, puramente «razionale» –, nella antipatia per la barbarie medioevale, per il «goticismo», sí che il «Tempio dell’ignoranza», allegoria di Pietro Verri, è rappresentato di «struttura gotica». E l’accordo del «Caffè» con l’illuminismo riformatore, didascalico, è comprovato dalla coincidenza di motivi e di argomenti con le Odi pariniane e con i pariniani articoli sulla «Gazzetta di Milano»[4]: elogio dell’innesto del vaiuolo, della vita in campagna, il tempio dell’ignoranza che ricorda l’Impostura.

E illuministiche sono le sorgenti culturali del «Caffè», indiscutibile la presenza di tesi enciclopedistiche, di esemplari soprattutto francesi[5] di simpatie intellettuali cresciute sotto il segno di una ragione, di un mito universalistico e progressista, in un equilibrio sostanzialmente razionalistico, anche se sempre piú Newton sostituisce Cartesio, e il sensismo si spinge pur nella sintesi illuministica a parziali rifiuti di un rigido intellettualismo. Cosí chiaramente razionalistico è il cosmopolitismo focoso e commosso del «Caffè» («i vari giornali fanno che gli uomini che prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi, ora sieno tutti press’a poco Europei», «Europa: divenuta ormai una sola nazione»). Ma ecco subito accanto al predominante europeismo (che rappresenta naturalmente un acquisto nuovo rispetto allo sciovinismo accademico) un articolo come Della patria degli Italiani del Carli, che pur con prudenza e sul piano culturale insiste con toni nuovi e diversi sulla unicità della nazione italiana: certo, patriottismo illuminato, ma principio di individuazione sulla base della tradizione che ci riporta alla nuova tensione preromantica, al nuovo bisogno di storicità e di concretezza. Cosí, se le conclusioni derivano da una volontà razionalistica di escludere ogni superstizione, ogni pregiudizio abitudinario, il sensismo di cui il «Caffè» è saturo giunge nell’articolo del Lambertenghi Sull’origine e sul luogo delle sepolture a proposizioni riprese poi dal romanticismo foscoliano: la conclusione è per i cimiteri di campagna per considerazioni igieniche civili, ma anche con un accenno alle relazioni morti-vivi che pare preludere ai Sepolcri.

Il sensismo insomma si svolge, la indagine sulle «sensazioni interne» si fa sempre piú concessione al sentimento, ad un senso popolare, istintivo che coagula con il «buon senso» tra razionalistico e sperimentale in una sintesi che spostandosi sulla base del primo elemento giungerà ai termini della «romanticomachia», alla prevalenza sempre prudente di un istinto, di un nuovo criterio di universalità, dell’unità «del core» di cui parlava il Torti[6] opponendola alle regole classicistiche. E proprio Pietro Verri (la figura piú decisa, piú radicale dell’illuminismo italiano) parlando dei giudizi popolari, mentre nega la loro importanza nel campo della scienza e del progresso, ammette la loro validità nel campo del sentimento e quindi della poesia, con una equivalenza popolo, sentimento, poesia che pare anticipazione di piú tarde poetiche. Naturalmente la superiorità finale della ragione non è esclusa e l’equilibrio tra le due facoltà è lontano dalle intuizioni dei preromantici piú decisi, ma la separazione dei due campi, mentre limita la nuova prepotente forza del sentimento, del non razionale (ché per molto preromanticismo piú che irrazionale energicamente affermato di fronte alla sterilità della ragione si dovrebbe parlare di non razionale, di diversità e non di opposizione), privandolo della sua esplosione piú rivoluzionaria che solo nell’Alfieri avvertiamo formulata energicamente, conferisce viceversa una validità incontrastata alla nuova universalità del sentimento in un campo che l’illuminismo piú coerente aveva gelosamente custodito: «Vero è altresí che molti giudizi non devono darsi dalla ragione, ma bensí soltanto dal sentimento, il quale è comune a tutti gli uomini, e da tutti si adopera. Chi assiste ad una rappresentazione teatrale non ride riflettendo se debba piangere o ridere, ma bensí sentendo puramente l’impressione pietosa o vivace della favola: perciò il giudice competente del teatro e della eloquenza è il popolo; e i poeti o gli oratori, che lo ricusano, son veri pedanti, che ignorano i principî del loro mestiere. La strada del cuore dell’uomo è comunemente aperta. La strada dell’intelletto non già...»[7]. Le espressioni sottolineate indicano d’altronde un avvio, assai compromettente per un illuminista, verso il riconoscimento di una maggiore universalità del sentimento di fronte alla ragione, che rimane privilegio di cultura e di educazione, e dunque pur superiore in quanto può scoprire gli stessi princípi della validità del sentimento, della realtà sensistica. Il pericolo viene cosí provvisoriamente spuntato e rivolto per ora ad una affermazione di superiorità del secolo illuminato proprio per la sua indicazione dei princípi della sensibilità: «Lo spirito filosofico s’è dilatato oltre i confini della fisica, egli regge ed anima l’eloquenza, la poesia, la storia, le bell’arti tutte insomma; il cuore umano ed i principî della sensibilità sono alfine piú conosciuti di quello che in prima non lo erano, ed il senso della maggior parte degli Europei è reso molto piú squisito e dilicato di quello che da lungo tempo non lo sia stato giammai»[8].

Il principio essenziale resta dunque lo spirito filosofico, ma esso dà vita a quel cuore, a quella sensibilità che viene scoperta come sola sorgente di poesia, non prodotto tanto di cultura quanto di istinto ed accessibile «a tutti». Inoltre la conoscenza di una sensistica meccanica del cuore e della ispirazione viene a produrre, piú che un asservimento all’organo della conoscenza, una sensibilizzazione del procedere creativo, un suo sicuro ricorso ai propri princípi non razionalistici. Il «Gefühl ist alles» faustiano rimane qui limitato all’impressione e alla intuizione poetica di cui la ragione può scorgere l’origine, ma cui non può assolutamente sostituirsi. «Chi non si scaglierebbe contro uno di costoro, il quale alla lettura del piú bel pezzo di Dante, mentre fa dire al conte Ugolino quel doloroso:

Ahi, cruda terra, perché non t’apristi!

in vece di lasciarsi agitare dall’azione che fa il poeta sopra ogni cuore sensibile, si fermasse ad osservare che l’accento cadendo sulla settima sillaba, cioè sul perché, il verso non è dolce, e che la terra non può essere crudele, molto meno cruda?»[9]. Dove si può notare il generico rifiuto di ogni disquisizione di critica grammaticale formalistica, l’affacciarsi del tipico abbandono sentimentale all’impressione patetica che conduce al sano contenutismo romantico. E il saggio enciclopedista lombardo non sdegnava in mezzo a saggi scherzosi, ma sempre volti ad un avvertimento, ad un arricchimento di civiltà, di disegnare nelle Delizie della villa un moderato schema di giardino inglese contrapposto a quello di moda francese e accanto ad un orto botanico caro allo scientificismo settecentesco. Questo e il giardino sono fatti «pel gusto nostro» e il secondo vive di quell’artificiosa spontaneità, in quel disordine naturale che si opponeva alla simmetria razionalistica, al trionfo della raison anche nella natura. Il gusto dei giardini inglesi è ritenuto uno dei primi segni in Francia e in Italia del nuovo amore romantico per l’organico naturale e c’è chi, come André Monglond, vi basa in gran parte il suo studio di costume letterario. E certo è chiaro il legame fra la nuova moda, frutto non solo di anglomania, e le nuove esigenze poetiche che qui in Italia si complicavano con residui arcadici, con influssi rousseauiani e persino con un tentativo di italianizzamento, di autorizzazione di ogni presenza straniera con richiami tradizionali. Cosí il Pindemonte, nel suo saggio sui giardini inglesi aggiunto alle Prose campestri, li riconduceva al tipo di giardino descritto dal Tasso nel castello di Alcina: e il Verri, nel suo disegno ancor tanto pieno di correzioni «giudiziose», si riavvicinava proprio a un disordine artificioso che non è ancora il gusto del selvaggio del pieno romanticismo. Ma, entro questi limiti e nella finale sintesi illuministica, al solito spuntano motivi sostanzialmente divergenti dalla direzione piú coerente della Aufklärung e Pietro Verri, massimo rappresentante del «Caffè», mostra ad un esame meno scolastico le sue venature inattese: non rivoluzionarie, ma mosse in un ritmo che sfugge al disegno pacato e lucido predominante. Sicché, mentre per alcune sue intuizioni civili, per la sua lotta antipedantesca, per il suo amore del pratico e del popolare, fa ben capire la reverenza che per lui avranno i romantici del «Conciliatore», per la sua indagine sulla sensibilità, per il suo sensismo sempre illuminato e fermo, ma spinto a quella raffinatezza e delicatezza che egli riconosceva al secolo condotto a conoscere «i principi del core», era soprattutto a quel romanticismo piú profondo e meno programmatico, che culmina nel Leopardi, che egli offriva intuizioni, temi, collaborando cosí in misura notevole, entro un equilibrio di tipo illuministico, allo sviluppo del preromanticismo italiano.

Cartesio, Newton, «l’incomparabile Orazio», indicano gli estremi della sua sintesi illuministica, ma delle punte ne fuoriescono, come nei suoi apologhi razionalistici compare uno spirito antiprogrammatico, concreto (si veda l’apologo dei lesbiani, degli empirici e di Leucippo in cui si conclude che il governo degli uomini «non ne fa quello che ne vuole fare; ma bensí quello che ne sa fare»[10]), come nei suoi discorsi Sull’indole del piacere e del dolore, Sulla felicità, il sensismo pur servendo risultati di ottimismo razionalistico e illuminato («L’uomo ha piú mezzi oggigiorno per essere felice che non ve ne furono giamai», «La felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso»[11]), ben lontani dalla decisione di Rousseau[12] («Le bonheur est un état permanent qui ne semble pas fait ici-bas pour l’homme. Tout est sur la terre dans un flux continuel qui ne permet à rien d’y prendre une forme constante... Ainsi tous nos projets de félicité pour cette vie sont des chimères»), sviluppa ricerche sulla sensibilità che preparano il sentimentalismo romantico. E offrono già, al di là della pratica morale illuministica («premunirci coll’uso della ragione e col placido esame contro l’insidioso assalto delle passioni prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo dell’immaginazione», «lo scemare e molto piú l’impedire il nascimento de’ desideri nostri... è sicuramente entro i confini della nostra volontà, come è in mano nostra l’accrescere il poter nostro con vari mezzi»[13]), un mondo di sentimenti, di esperienze sensibili che il piú gelido razionalismo ignorava e che, mentre entravano nella pratica illuministica del Parini, fermandovisi in precisione classicistica, autorizzavano piú segretamente una poetica senza regole che non fossero interne alla sensibilità, una pratica di poesia aderente alle sensazioni del cuore, ai movimenti raffinati e dolenti dell’anima tanto piú tenera e sentimentale quanto piú legata ad una oscillazione di piacere e dolore, fuori di platoniche contemplazioni, di modelli perfetti inevitabilmente misurati razionalmente. Ché soprattutto queste indagini sulla felicità, sul piacere e sul dolore, che il Leopardi risentirà cosí vivamente e secondo il loro sviluppo piú nuovo e segreto, importavano quell’accarezzamento della personalità nella sua tensione sensibile, quel tono di auscultazione interna che conduce facilmente alla tenerezza e alla nostalgia, a una considerazione meno ferma e distaccata dei sentimenti, che sommuove il mondo sereno e compatto dei classici. L’atteggiamento di Pietro Verri è sempre conclusivamente quello di uno studioso, di uno scienziato, di chi tende ad illuminare con l’intelligenza lucida e ferma, e il suo fondamento è sempre un materialismo poco sollevato (al fondo del dolore «qualche viscere sproporzionalmente grande o angusto»[14]). Ma nell’indirizzo edonistico settecentesco penetra ormai uno stato di inquietudine («le désir est un état d’inquietude», dal testo francese di Locke) che nei romantici diventerà angoscia e noia, e nell’equilibrio illuministico si precisa in temi tanto piú importanti in quanto dedotti da esperienza che in tal caso è esperienza sentimentale: «La sensibilità dell’uomo, il grande arcano»[15]. Nella vita «un modo di esistere doloroso»[16]. «Il dolore precede ogni piacere ed è il principale motore dell’uomo»[17]. E nella fine del Settecento il Discorso del Verri rimase celebre soprattutto per la conclusione della prevalenza del dolore che, in un campo di constatazione psicologica, lo stesso Kant appellandosi al Verri sottoscriveva[18]: conclusione che realizzava la discussione aperta dal Maupertuis sul calcolo della somma dei piaceri e dei dolori e offriva una base di pessimismo non generico all’inchiesta irrequieta dei romantici.

Cosí, se queste indagini erano rinchiuse nel cerchio sereno e pacato del saggio settecentesco («l’uomo robusto, lieto e felice, sfiora sorridente gli oggetti, e signore della natura, domina le sensazioni proprie tranquillamente»[19]), nella diffusa sensibilità preromantica portavano il presupposto di una crisi del razionalismo e del classicismo, contribuivano validamente a quel nuovo impasto letterario sentimentale in cui non piú la parola doveva chiudere saldamente un concetto, ma doveva adeguare la vita complessa, irregolare della sensibilità nelle sue aspirazioni, nelle sue nostalgie, i «movimenti del cuore», del «sesto senso» che apriva anche una strada piú sicura ed ampia alla stessa virtú settecentesca: «La virtú nata dalla sola ragione ci fa essere giusti, fedeli, discreti e circospetti; ma quella che parte dal sentimento, ci fa essere generosi, affettuosi, benefici: la prima tende piú a sottrarre dalle nostre azioni il male, la seconda ci spinge con azioni positive al bene»[20]. Ed anche nei riguardi dell’arte P. Verri, mentre accetta il principio oraziano e pariniano utile dulci («cagionar piacere e allettarci con esso a ben accogliere l’utile»[21]), applica la sua teoria del dolore: «I piaceri delle belle arti nascono dai dolori innominati»[22], e avvia la tendenza preromantica di considerare la poesia come nata dalla tristezza, compresa in uno stato d’animo non felice. Donde giunge ad un predominio della musica «la piú sensitiva e la piú emotiva», che su base sensistica viene ad incontrarsi con il primato romantico della musica come espressione d’infinito.

L’indagine cosí interessante del Verri rimaneva inquadrata da una finale fiducia razionalistica, dall’idea dell’arte «chiara, facile, ordinata», e ugualmente in questi termini, e piú condizionata da un temperamento «naturaliter» illuministico, ci si offre la qualificata indagine del Beccaria: Ricerche intorno alla natura dello stile. Una salda distinzione fra idee e sentimenti, un distacco sereno e pacato dal mondo torbido delle emozioni, una curiosità viva e penetrante, ma non dotata della simpatia del Verri, una fermezza definitoria inamena ed arida che giustamente fece dire all’Ugoni: «Insegnando a ridurre le idee astratte ad immagini fisiche, atte a dare immediate sensazioni, l’autore non accompagnò il precetto con l’esempio, e riconobbe egli stesso l’aridità del suo stile»[23]. Tanto arido e matematico che nella stessa definizione dell’entusiasmo, lungi dall’enfasi appassionata del Bettinelli, ricorre a una serie di espressioni di estremo razionalismo, di precisione scientifica: «L’entusiasmo sarà in ragione composta dell’interesse di ciascuna di queste idee che lo formano, e delle diramazioni maggiori o minori dell’idea centrale»[24]. E tutto l’esame del Beccaria è orientabile ad una specie di commento al Giorno, alla razionalistica individuazione di una meccanica delle regioni sensoriali che nel Giorno trovò la sua alta realizzazione poetica («Le sensazioni eccitate da corpi molli sono sensazioni sorte e poco vivaci e lentamente succedentisi»[25]: una frase che suscita come suo equivalente poetico tutta una serie di immagini pariniane), e quindi alla tipica poetica sensistico-illuministica nella sua sintesi piú completa e feconda. Ma anche qui, entro questo cerchio, entro uno stile raramente sensibile («gli oggetti inondano e percuotono l’animo»), questo sensismo integrale e raccolto in un superiore amore di vita illuminata, di ragione serenatrice, di umanità legiferante, inizia, con il suo procedere spietato che rinnega il semplice estro settecentesco (forte per lo piú di surrogati preromantici, di entusiasmi equivoci) per una norma minutamente descrittiva, in sé e per sé negativa, quella nuova e precisa attenzione psicologica che finirà per sommuovere la libera attività di una sensibilità eccitata e a farla ribellare contro la stessa saggezza scientifica che l’aveva descritta ed indicata: «Un’eccellente poetica sarebbe quella che insegnasse a risvegliare in se stesso l’indolente ed indeterminata sensibilità, che facesse scorrere lo spirito osservatore su tutte le cagioni che gli produssero piacere o dolore»[26]. E se è l’intelligenza che prevede moti sentimentali e li valuta e li sottomette a «un loro stesso carattere di princípi certi e norme inalterabili», tuttavia questi sentimenti indagati e affermati nel loro fremito irrazionale, nel loro stimolo tormentoso, passano senza volerlo in una topica nuova, in una summa di nuovi temi poetici, in un nutrimento sentimentale della poesia, e contribuiscono proprio a quella diversa funzione della poesia che nella loro traduzione immediata, nella loro cultura letteraria sostanzialmente negavano. «Non v’è in natura oggetto ridente e consolante, che non abbia un lato serio e tormentoso. Il dolore si diffonde largamente per tutta la catena degli esseri sensibili. Respinto incessantemente, incessantemente ritorna; a tutti serve di stimolo, che li sollecita ad allontanarsi dal presente, ed a spingere l’inquieto sguardo nell’avvenire...»[27]. E se il contrasto fra gioia e dolore in uno «stile» fa pensare alla pariniana «specie gradevol di spavento» e si conclude in un sostanziale edonismo, esso poteva nella atmosfera di quegli anni incontrarsi con quel tono di sensibilità idillica e mesta, di arcadia preromantica a cui veniva ad offrire una precisazione e una convalida teorica che serví certamente anche piú tardi nel neoclassicismo romantico.

Certo la sensazione come rapimento portava nel Bettinelli a maggiore genericità e a maggiore abbandono fra estro e sentimento e piú facilmente invitava alle aure preromantiche, e certo i limiti ferrei delle Ricerche sono chiari e inconfondibili, ma una trionfante sintesi prepara nella sua maturità fermenti piú segreti come quelli indicati o piattaforme comuni a movimenti piú decisivi come il ripudio delle regole («Queste regole non erano per lo piú che il ridurre a canoni generali le bellezze già combinate dai maestri dell’arte, quando piuttosto dovevano essere osservazioni pure generali sulla maniera con cui essi le avevano combinate; e mentre queste si dovevano cavare dal fondo del nostro cuore...»[28]), il mito del linguaggio primitivo che corregge in senso nuovo l’esistenza delle sensazioni particolari (da cui piú che il gusto del concreto derivava l’amore sensistico della parola, il classicismo definitorio pariniano) contribuisce comunque alla lotta contro il linguaggio convenzionale e astratto: «Le lingue tutte sono tanto piú energiche e poetiche, quanto conservano piú fresca la traccia del linguaggio primitivo ed originario, e piú di energia hanno quelle lingue di cui le parole complesse rappresentanti idee complesse sono visibilmente composte di radicali immediatamente rappresentanti sensazioni; onde nel discorso il piú raffinato e composto di società culta ed artificiosa, l’orme sensibili si conoscano ed i primi lineamenti di una selvaggia ed incolta fantasia»[29].

Il sensismo mostrava cosí nei suoi rappresentanti piú intelligenti la sua doppia funzione illuministica e nuova e già nella sua indicazione della sensibilità e delle sensazioni interne permetteva un nuovo atteggiamento letterario, come nel primo Novecento il freudismo serví, non con le sue rozze teorie artistiche ma con la sua indicazione del subconscio e del pansessualismo, a stimoli di nuova poetica. Ma accanto a Pietro Verri e a Cesare Beccaria che rimanevano volontariamente sul piano della ragione illuminante, nel «Caffè», già cosí mosso e ricco tra illuminismo e romanticismo per opera di quelli, gli spunti piú nuovi, la sensibilità piú fresca anche nel gusto del paradosso e dell’estro, ci vengono da Alessandro, allora nell’epoca della sua produzione piú giovanile e brillante, che egli piú tardi, nel periodo di conservatorismo e di preromanticismo classicheggiante, sconfessò insieme al suo stile francesizzante e spregiudicato. Al «Caffè» Alessandro prese parte attivissima specie nell’ultimo trimestre quando finí per compilare dei numeri quasi interamente da solo (ed infatti gli ultimi numeri hanno un tono assai diverso da quello piú complesso e maturo dei primi), e questa sua prima attività fu poco distinta negli studi sul «Caffè» e poco individuata nei suoi motivi di illuminismo preromantico rispetto all’eccessivo e generico uso delle Notti romane.

Alessandro aderisce naturalmente a quella forma di entusiasmo civile e cosmopolitico che è proprio del «Caffè»: a quel gusto di rinnovare tutto, dal riscaldamento delle case alla ipocrisia, dal pedantismo linguistico ai pregiudizi superstiziosi[30], che in lui diventava giovanile piacere di combattimento, brio di scrittore piú che zelo di scienziato. E la sua sensibilità ansiosa, fremente, lo portava, in uno stile estremamente saporoso anche se linguisticamente composito, a tradurre il «sensibil filosofo» in un letterato che sempre piú raffina e spinge il sensismo, con un sottile estro di bizzarria e di paradosso, a nuovi motivi preromantici. Sulla linea del paradosso sensistico si prenda il Frammento sugli odori (non per nulla P. Verri parlando delle nuove teorie sensiste citava a precursore Magalotti) in cui Alessandro propone per sensibile arricchimento dei godimenti umani un nuovo sfruttamento dell’odorato, le cui percezioni non sarebbero state organizzate da una volontà artistica come quelle della vista e dell’udito, e abbozza scherzosamente un nuovo melodramma in cui i versi siano accompagnati da uno sviluppo di gradazioni di profumi[31]. Uno scherzo quasi decadente che nascendo nel clima sensistico acquista il significato di una briosa estenuazione di questa brama di «sentire» in direzione sensuale oltre che, come altrove, sentimentale. Ma l’humour brillante di natura tutta settecentesca limita ed alleggerisce questa tendenza, mentre ben piú costanti sono gli sviluppi nella direzione sentimentale, nel raffinamento di sensibilità sensuosa in sensibilità sentimentale. Partendo dalla discussione maupertuisiana sulla felicità e l’infelicità, sul piacere e sul dolore, Alessandro accentua uno scetticismo che si va facendo sempre piú amaro e che pare prevenire la stessa vittoria auspicata dell’illuminismo sulla barbarie religiosa («L’umanità e l’eguaglianza ci proibiscono di amaramente disprezzare gli uomini»[32]), pur in quell’aria di predominio della bontà («La piú bella qualità dell’uomo è quella di essere uomo, cioè di essere sensibile ai mali degli uomini, di essere buono, benefico, compassionevole e discreto; l’aver dello spirito e delle cognizioni è una qualità secondaria»[33]) che può richiamare perfino, nel suo eccesso di sensibilità, il goethiano ospedale della umanità.

Diffidenza della sicura vittoria della virtuosa ragione che si fa coscienza di un limite del progresso e della ragionevolezza umana, come nel Comentariolo contro la definizione: L’uomo è un animale ragionevole: atto d’accusa con argomenti che in parte diverranno leopardiani e che naturalmente attendono, per avere la loro importanza organica, la coscienza romantica del dramma della situazione umana. La varietà delle opinioni fra i vari popoli e le superstiziose idee dei selvaggi che non sono maggiori di quelle dei popoli civili, degli uomini «socievoli, uomini di città, uomini addomesticati», inducono ad una modestia, ad una diffidenza che sono la strada verso la svalutazione di un’assoluta capacità della ragione, come sotto la terminologia illuministica la diffidenza del sicuro progresso di lumi porta ad un elogio degli «errori utili» che arieggiano già le «illusioni» di tipo leopardiano: «Vantiamo tanto la ragione, e dobbiamo le piú grandi cose all’errore. L’entusiasmo, le passioni sublimi sono per lo piú figlie di lui, e con queste si fanno le imprese grandi. Dove l’amor della patria, dove il disprezzo stoico della morte e del dolore, dove il valor militare sorgenti feconde della grandezza delle nazioni immortali, se la logica fosse stata invece delle opinioni? Togliete ai Maomettani la persuasione che morendo in guerra vassi in seno al Profeta... Togliete agli antichi Romani la persuasione che dovessero conquistare il mondo... Qual coraggio non aveano nelle guerre i popoli del Nord? Ciò essi doveano all’antico loro legislatore Odino che avevali persuasi essere deliziosa cosa il morire in guerra. In un’ode di un re del Nord, Ledbrog, si vede quale effetto producesse questa persuasione: Qual trasporto di gioia m’inonda il cuore? Io moro. Ascolto la voce d’Odino che mi chiama... Venga il buon logico, e dica a questo moribondo che egli è un pazzo; venga il freddissimo metafisico e faccia un trattato contro di Odino, avrà fatto un bel servizio a quelle nazioni... Quando mi si dimostrerà che le nazioni non hanno bisogno di certe grandi passioni per essere grandi, e felici; quando mi si dimostrerà che in una vasta società d’uomini si possa eccitare l’entusiasmo colla sola ragione, e senza opinioni; quando mi si dimostrerà che le sublimi passioni sono ragionamenti, allora dirò che la ragione fa delle grandi cose. Fin’ora il solo entusiasmo ed il solo sentimento le ha fatte. Ne’ paesi della sensibilità la fredda logica fa un terribile saccheggio»[34]. Se si può porre un limite a questo atteggiamento di Alessandro nel suo brio di causerie, nella sua intonazione tra paradossale e di società (donde uno stile che pochi altri del suo tempo in Italia ebbero, cosí rapido e leggero, per nulla vaporoso, e non legnoso, sciolto e sensibile senza abbandoni), tuttavia non si può negare la svolta sempre piú decisa impressa da Alessandro a un pessimismo di origine sensistica, in termini illuministici, che implica alla lunga anche una diversa impostazione di gusto e di poetica, in cui fonte di poesia fossero evidentemente illusioni ed entusiasmo, dato che la frase finale da noi citata potrebbe facilmente diventare: nel campo della sensibilità la fredda logica fa un terribile saccheggio. Si pensi all’ode L’impostura del Parini, agli esempi dei celebri impostori, e si vedrà che pur nel tono elegante di paradosso settecentesco, ancora assimilabile in clima illuministico («errore utile»), i «pezzi» di Alessandro sono piú che a mezza strada nel cammino che va dal Parini all’Alfieri, alla piú tesa aria romantica. Su questa strada che dall’illuminismo giunge ad un romanticismo piú caratterizzato dalla consequenzialità appassionata del Leopardi che dall’impeto assoluto di un Novalis, Alessandro si spinge avanti sostenendo queste rapide intuizioni con un approfondimento della sensibilità interna, con una continua indicazione del sentimento che piú tardi si libererà dal freno gustoso del conversatore settecentesco. «Io credo che il mezzo piú atto di comunicar le idee morali all’universale degli uomini sia la strada del sentimento. Molti sentono, pochissimi ragionano. Il sentimento non fa sofismi; l’intelletto ne fa moltissimi»[35]. «Gli antichi fondavano i lor sistemi morali su delle grandi, ed ammirande immagini, tutto era entusiasmo; le virtú tutte eran giganti. Di rado ragionavano, quasi sempre erano poeti»[36]. L’illuminista par riprendersi con un privilegio dell’intelletto, privilegio però di pochi e quindi incapace di «illuminare» ogni uomo, e accanto alle virtú antiche cerca di porre a loro svantaggio uno scarso equilibrio che faceva di loro «degli uomini sublimi, dei mostri, direi quasi, di virtú», ma l’accento batte oltre l’inquadratura generale sulla sensibilità, causa di dolore, di pessimismo, e madre di «divini entusiasmi». E se è facile ricollegare certi motivi di amore della solitudine, di semplicità, di ingenuità (si veda ad esempio nel II semestre Lo spirito di società), di contrasto fra una elementare sanità e le convenzioni della società, a quella linea di relativismo ambientale e di satira delle convenzioni che va in certo modo da Montesquieu (Lettres persanes) a Voltaire (L’ingénu) e che è chiaramente illuministica, questa difesa dell’«ingenuo virtuoso» tocca facilmente, sulla base del continuo elogio degli antichi, la virtú istintiva di Diderot, la corruzione delle convenzioni, sí che anche le riflessioni sull’individuo e la società, numerose nella collaborazione di A. Verri, possono coerentemente sfociare in quella prosa ardita e appassionata che porta il titolo La prova del cuore[37]. Perché qui il virtuoso entusiasmo di Demetrio, il personaggio cui soprattutto Alessandro ha dato vita artistica (e intorno ai pensieri di quel gruppo di avanguardia il quadretto della bottega odorosa e del saggio ed esotico caffettiere forma uno sfondo ineliminabile a questa aria di vivace, sveglia discussione settecentesca), vive di moralismo illuminato, ma la continua polemica contro gli spiriti freddi e calcolatori non è solo sdegno di mediocrità, satira di costume, e nel gesto eroico, ingrandito dalla fantasia, ogni valutazione è abolita di fronte alla partecipazione, alla simpatia commossa che si basa su nuovi criteri interni, su di una appassionatezza, su di un primato del «cuore» che sempre piú si traduce in un linguaggio a base sentimentale in una idea di letteratura che va oltre le audacie antipuristiche, antipedantesche. Cosí nell’articolo Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni, ribellandosi allo stilismo, al calligrafismo, diremmo, dei letterati contemporanei, Alessandro, partendo dalla solita esigenza di una nascita seria e concreta della forma, di un contenutismo sostanzioso, e dal solito disgusto (naturalmente funzionale a questo bisogno rivoluzionario) della tradizione cinquecentesca verbosa e accademica, insiste sulla composizione di getto (quasi alla prima parte del lavoro alfieriano), su di un primato dell’ispirazione in cui i romantici del «Conciliatore» tesaurizzarono una simile esperienza, una simile ribellione ad un lavoro formalistico, a regole preconcette, mediante l’appello ad una libertà di poteri piú istintivi del poeta.

Piú tardi, perduta la freschezza giovanile, quella baldanza che gli prestava ingegno, trascinato da una delusione assai precoce circa i risultati del movimento illuministico (si vedano cosí i ritratti degli enciclopedisti francesi nelle lettere al fratello) – delusione certo preparata dai motivi di scetticismo sui lumi che nel «Caffè» formano un singolare ed interessante impasto con l’entusiasmo nuovo e con il gusto di chiarezza e di paradosso –, Alessandro ricercò alle sue intuizioni di sensibilità sentimentale modelli schiettamente preromantici (Young, i romanzi inglesi e francesi, la tradizione drammatica shakespeariana) e li compose, con strana vicenda, con le tendenze neoclassiche affiorate verso la fine del secolo. Ne nacquero, come vedremo parlando della moda preromantica, i suoi romanzi ed un atteggiamento fra sensibile e retorico, coerente in una temperata onda monotona alla radice amara del suo carattere, priva dello squisito fremito di novità che lo animava nel periodo del «Caffè».

Alessandro spinge al massimo la novità che vive nel «Caffè», ricchissimo esempio di questa tipica situazione italiana: illuminismo sensistico e preromanticismo sensistico rattratti in un contemporaneo sviluppo. E del resto non certo fuori da un simile sviluppo, anche se in una posizione particolarissima, è il letterato piú rumorosamente rivoluzionario e insieme conservatore del secondo Settecento: il Baretti.


1 Sopra un manoscritto inedito degli Autori del Foglio periodico il «Caffè», «Conciliatore», n. 91.

2 A. Manzoni, Lettere, a c. di C. Arieti, Milano 1970, tomo III, p. 437: lettera al Cantú s.d.

3 Si veda in proposito il mio articolo I giornali letterari del settecento, in «La Ruota», dicembre 1940. E su «Il Mondo», 1945-46, le prime quattro note sulle Riviste letterarie, n. 12, 13, 17, 21 (ora in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, 19693).

4 Tali concordanze furono notate da L. Ferrari (Del «Caffè», «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», XVI, 1900, pp. 72 ss.).

5 Per le relazioni del «Caffè» con gli ideologi francesi mi riferisco a E. Rota, La società del «Caffè» nelle sue relazioni coll’enciclopedismo francese, in «Bollettino Pavese di Storia Patria», gennaio 1915.

6 Si veda il mio articolo La battaglia romantica in Italia, in «Annali della Scuola Normale», 1947 (ora in Critici e poeti cit.).

7 «Caffè», a c. di S. Romagnoli, Milano 1960, p. 171; il corsivo è nostro.

8 Ivi, p. 157.

9 Ivi, p. 42.

10 Nell’appendice al II volume (p. 95) degli Scritti vari, Firenze 1854.

11 Discorso sulla felicità, in Scritti vari, ed. cit., I, p. 114.

12 J.J. Rousseau, Rêveries du promeneur solitaire, in Les Con fessions ecc., par L. Martin-Chauffier, Paris 1951, p. 738.

13 Discorso sulla felicità, ed. cit., pp. 68, 69.

14 Discorso sull’indole del piacere e del dolore, ed. cit., p. 37.

15 Ivi, p. 9.

16 Ivi, p. 37.

17 Ivi, p. 52. Titolo del capitolo XI.

18 Kant, Anthropologie, II, § 59.

19 Discorso sull’indole del piacere e del dolore cit., p. 41.

20 Discorso sulla felicità, ed. cit., p. 104.

21 Discorso sull’indole del piacere e del dolore cit., p. 42.

22 Ivi, p. 38. Titolo del capitolo VIII.

23 C. Ugoni, Della letteratura italiana nella II metà del sec. XVIII, Milano 1856-1858, vol. II, p. 222.

24 Ricerche intorno alla natura dello stile, in Opere, a c. di S. Romagnoli, Firenze 1958, I, p. 313.

25 Ivi, p. 280.

26 Ivi, p. 209.

27 Ivi, p. 270.

28 Ivi, p. 207.

29 Ivi, p. 289.

30 Il gruppo del «Caffè» si mantenne sempre prudentissimo nei riguardi della religione e può interessare, per il tono dell’illuminismo italiano curioso e timido, ricordare la meraviglia, il mistero con cui Alessandro da Parigi (Lettere e scritti inediti di P. e A. Verri, a cura di C. Casati, Milano 1879-81, I, p. 330) riferiva un discorso del D’Holbach: «Il barone ci ha ieri e oggi fatti venire di mattina per tempo in casa sua per leggerci una sua opera manoscritta da lui gelosamente custodita. Sapete in che consiste? Non meno che in provare con un calore ed una precisione ad un tempo grandissimi che 33, 16, 44, 40, 3, 37, 10, 32, è la principale sorgente dei mali degli uomini e che l’idea di un 33, 3, 37 è la prima origine di tutto ciò. Egli è persuaso che dato 39, 14, 37, ci vuole un 18, 27, 16, 9, 5, dato questo ci vogliono dei 34, 33, 6, 9, 14, dati questi vi sono cento bricconate». Naturalmente le parole cifrate sono: religione, Dio, culto, preti.

31 Ma ora nuovi elementi, malgrado la sigla che nel «Caffè» contrassegna gli scritti di Alessandro, fanno ritenere che questo saggio sia dovuto al Beccaria (cfr. C. Beccaria, Opere cit., I, p. 139).

32 «Caffè», ed. cit., p. 137.

33 Ivi, p. 327.

34 Ivi, p. 455.

35 Ivi, p. 478.

36 Ivi, p. 482.

37 Ivi, pp. 461-462. È l’episodio ripreso da J. Royce nella Filosofia della fedeltà.